NAPOLI – Al Teatro Bellini, dal 16 al 28 maggio, in scena “Sei personaggi in cerca d’autore” di Luigi Pirandello; con Sara Bertelà, Valerio Binasco, Giovanni Drago, Giordana Faggiano, Jurij Ferrini, regia Valerio Binasco. Con la partecipazione degli allievi della Scuola per Attori del Teatro Stabile di Torino.
Dei Sei personaggi si sa tutto fin dal debutto, molto travagliato, al Teatro Valle di Roma il 9 maggio 1921: l’iniziale polemica accoglienza di pubblico e critica ha lasciato il passo a un successo internazionale, ancora oggi immutato.
Dopo Il piacere dell’onestà, Valerio Binasco torna ad affrontare uno dei capolavori di Luigi Pirandello, il testo che meglio di qualunque altro ha saputo contrapporre le contraddizioni della scena e del teatro: l’incontro-scontro tra parole e regia, interpretazione e vita reale.
Nella storia di questa famiglia spezzata, Binasco ritrova gli elementi che caratterizzano la propria poetica: arte e vita, umanità e maschere si fondono in un nucleo di interrogativi e riflessioni sul valore della rappresentazione e della nostra identità.
Nelle sue regie più recenti, Binasco ha messo in luce la dissoluzione della famiglia e le implicazioni che questo fallimento riflette sulla struttura sociale, mettendo in relazione la tradizione nordica dell’ultimo secolo (Strindberg, Fosse) con la drammaturgia del Premio Nobel siciliano.
Con questa vicenda, apparentemente scontata, di una famiglia dilaniata, Binasco intercetta i sottili e fragili fili che reggono i rapporti umani, rimandando alla vera sostanza dell’essere umano, e così a quella dell’attore, che da millenni cerca di rappresentare la più intima essenza della collettività.
Arte e vita, essere umano e attore sono gli elementi al centro di una crisi di identità che li attanaglia, messi in crisi da una società e da un’industria culturale sempre più legata al denaro.
Un mondo piccolo-borghese, quello di Pirandello, che sposa molte delle ambientazioni registiche del Direttore artistico del Teatro Stabile di Torino. Un testo che ha segnato in Italia l’inizio del teatro contemporaneo e continua a mantenere intatto il conflitto tra sostanza e ruolo sociale.
Note di Valerio Binasco
Il primo pensiero è che questo sia un testo concepito per sorprendere e spiazzare. Quindi bisogna trovare un modo per far sì che continui a sorprendere e spiazzare. Anche se dobbiamo accontentarci di un effetto attenuato dal tempo: i Sei personaggi sono diventati un classico, con una trama e una forma scenica ormai risapute.
Ma questa non deve essere una scusa per farne un pezzo museale sui vizi del teatro d’altri tempi, stravagante ma non troppo, o, peggio – almeno per il gusto di chi scrive queste note –, un dramma filosofico il cui centro di interesse consista solo nella gara di intelligenza tra chi filosofeggia e chi cerca di raccapezzarsi senza capire niente di ciò che sostiene il suo interlocutore.
Se devo dire la verità, i sei personaggi suscitano in me una certa antipatia. Nonostante l’untuosa cortesia del Padre, che fa da portavoce ufficiale della famiglia, è indubbio che questi sei strani individui soffrono di un grande senso di superiorità nei confronti degli attori e del pubblico.
Ma è necessario essere indulgenti con loro, perché soffrono anche di qualcos’altro. Soffrono per la loro vita, che è stata ed è un inferno. E non si vede né fine né redenzione per loro, perché, in quanto esseri letterari, sono immortali.
Il loro dolore avrebbe un minimo di tregua soltanto se qualcuno mettesse in scena la loro storia. Così come certi dannati danteschi straziati dal vento, hanno un po’ di sollievo solo quando esso “si tace” per qualche momento. Ma qui non si può. L’autore del loro dramma ha buttato la sua commedia nel cestino e l’autore dei Sei personaggi ha optato per un finale senza risoluzione, lasciando che i suoi protagonisti mancati vengano come risucchiati fuori dal palcoscenico da una malìa che li vuole vagabondi per sempre, di teatro in teatro, a supplicare d’esser messi dentro un copione.
Pirandello scrive un dialogo filosofico grottesco nel quale innesta una trama sfilacciata e ricca di spunti emotivi. Ma nessuno sviluppo drammatico compone una vera storia. Il mio spettacolo prende atto di questa noncuranza dell’autore, ma rivendica il piacere di affidarsi a schemi semplici come il plot e il sub-plot.
Anche se Pirandello pare non curarsene, il plot, la trama principale, c’è. Ed è quello che vede una compagnia di attori in profonda crisi creativa. Sia gli attori che il Regista-Direttore sembrano non capire più nulla di quello che stanno facendo. Questa compagnia presenta i sintomi di una malattia molto grave, diffusa nel mondo come una catastrofe, ovvero il degrado dell’arte teatrale. Pirandello, che voglia rivelarcelo o no, scrive questa commedia guardando dritto negli occhi il Teatro del suo tempo e dicendogli: stai morendo.
Veniamo adesso a quel che vorrei fare io. Per me il plot principale, ovvero quello della crisi di una compagnia, è importante. Questa crisi si incarna quasi totalmente nel Regista-Direttore. Lui è il medium. La compagnia dei giovani attori, che percepisce di vivere un’epoca di crisi del teatro, è a sua disposizione. Farebbero di tutto per lui; e per sé stessi. Questi attori non sono per noi i citrulli incapaci di Pirandello, attori e attrici annoiati e in ritardo, stupidi, fatui, senza alcun interesse per quel che fanno. La nostra compagnia è fatta di giovani – interpretati dalle ragazze e dai ragazzi della Scuola per Attori del Teatro Stabile, giovanissimi davvero, nei primi anni della loro formazione – che, con il loro entusiasmo e la loro ingenuità, a volte anche la loro acerbità e goffaggine, sono attenti e sensibili. E queste loro qualità fanno percepire ancora più acutamente nell’animo del Regista-Direttore il disagio della sua inadeguatezza.
Il Regista-Direttore, in prospettiva contemporanea, vive la crisi di insensatezza del fare teatro oggi. Non sa più cosa deve fare. Sa solo che per salvarsi la vita deve comunque fare qualcosa. Ma cosa? E per chi? E come? E per ottenere cosa: amore? Rispetto? Quali sono i bisogni interiori di questo regista? E perché il teatro non è più capace di soddisfarli? Perché è finito a mettere in scena Il giuoco delle parti di Pirandello? Cosa vuole da questo vecchio testo? Cosa cerca e non trova? Perché è andato ancora una volta a mettere in scena Pirandello, non poteva fare qualcosa di più contemporaneo? Qual è dunque il suo rapporto con la contemporaneità?
Sta cercando il “senso” del suo mestiere ed è ovvio che lo vada cercando nelle opere più intrise di tradizione. Visto da una prospettiva contemporanea, Pirandello è un classico. Mi dispiace per lui, ma è andata così. Un classico della modernità, se vogliamo, una specie di pezzo di museo d’arte moderna. Ma pur sempre un pezzo da museo. Quindi è naturale, giusto, necessario, inevitabile rivolgersi a lui – come ci si rivolge a Shakespeare, a Goldoni, a Čechov – quando si cerca il senso del nostro mestiere.
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