Intervista della rubrica “Dietro le Quinte” inserita nel numero Aprile 2020 di Napoli a Teatro
Zaira De Vincentiis, una delle più note costumiste teatrali italiane e docente all’Accademia di Belle Arti di Napoli.
Che valore ha per te insegnare ai giovani allievi?
Io ci tengo davvero tanto alla mia docenza in Accademia, per me è un punto d’onore. Ho amato questa materia, con grande passione, come una sorta di innamoramento, ed in effetti a questi ragazzi ho voglia di dire tutto cercando di farli appassionare. Qualche volta sono perplessa perché mi rendo conto che la possibilità che io ho avuto da giovane non è invece facilmente possibile riscontrarla adesso. Ho avuto la fortuna effettivamente di poter partecipare ad un momento “storico” importante, con floride produzioni che davano la possibilità di esprimersi e stringere contatti con registi affermati. Ora la creatività è molto limitata.
Pensi che sia davvero molto più difficile emergere adesso?
Erano di sicuro altri tempi ma devo dire anche che, rispetto a molti giovani di adesso, io ero una giovane molto reattiva. Avevo capacità, anche con i contatti, non erano semplici nomi, li ho saputi far fiorire in poco tempo. Da subito sono entrata in contatto con un mondo molto attivo e di grande qualità. Avevo dei desideri, punto molto su questa parola, io individuavo degli spettacoli che mi piacevano e con il desiderio di lavorarci andavo a bussare alle porte dirigendomi verso ciò che mi solleticava. Approdai a Roma, che in quegli anni era crocevia dello spettacolo e fucina di grandi laboratori di costumisti (Tirelli, GP11, Farani). Io desideravo assomigliare a loro, la bellezza che esprimevano quei costumi volevo realizzarla anche io. Cerco sempre di infondere coraggio nei ventiquattrenni di oggi raccontandogli del coraggio che ebbi io per farmi stimare in quei laboratori.
Quale percorso ti ha portato al costume in teatro?
Sono arrivata al costume teatrale dopo un percorso di indirizzamenti dei miei professori. Io andai al liceo artistico perché andavo bene in disegno ma i miei soggetti preferiti non erano né paesaggi né tramonti, a me interessava disegnare le persone, mi piaceva fare le caricature. Avevo professori bravissimi, tra cui il Professor Di Fiore che ancora incontro, che mi spinse verso il teatro. Dopo il liceo mi ritrovai a dover scegliere, ero indecisa tra architettura e scenografia, che poi sono molto vicine, però nel teatro c’erano i personaggi per cui nutrivo interesse e architettura, a confronto, era troppo fredda. Scelsi Scenografia, a quel tempo eravamo in pochi e nei primi lavori mi furono affidati i costumi, si può dire che il mio professore scelse per me, bene. Tutto ciò che è venuto dopo, invece, è stato un percorso desiderato, voluto, ricercato e costruito.
Quanto può essere arduo e difficile il lavoro di costumista?
E’ un’attività durissima, perché hai una responsabilità enorme, tu sei un collaudatore e hai una responsabilità di resa visiva. L’attore ha i suoi movimenti e ci vuole sempre un compromesso per far lavorare loro senza rinunciare alla forma degli abiti. Quando c’è una regia solida, i bozzetti sono studiati in base ai movimenti e gli stessi sono adattati in base ai materiali. Ogni spettacolo è un’opera prima ed ha una personalità tutta sua. E’ un groviglio di nodi da sciogliere, quando è sciolto l’ultimo nodo si va in scena. Il costumista deve prevedere anche i cambi costumi e i tempi che hanno gli attori per cambiarsi. Se un costume non funziona è perché non è stato pensato bene. Devi essere su tutto il pezzo e anticiparlo al minimo dettaglio. Certe volte i costumi sono perfetti, soprattutto quando realizzati da grandi sartorie. Le maestranze sono fondamentali, il costumista lo fa la sartoria, come un architetto lo fa l’impresa, andrebbero supportate molto di più.
Progettazione e creatività come si bilanciano?
Incide sempre il taglio registico ed il linguaggio che si è deciso di adoperare. Però, c’è un però, anche il costume più storico andando sul palcoscenico ha bisogno di una teatralizzazione. Quindi non c’è una verità, c’è sempre un’interpretazione della verità per il palcoscenico. Adesso la gradualità della fantasia e dell’immaginario può essere più o meno spinta, c’è chi vuole qualcosa di più astratto, chi vuole invece atemporalità facendo convivere segni distintivi di momenti temporali diversi. Con Konchalovsky, ad esempio, i personaggi cinquecenteschi della Bisbetica Domata sono stati posizionati sulla scena in una piazza di De Chirico, scavalcando il segno storico in una spettacolare opera di traduzione.
Potresti descriverci un costume che più di tutti ti è rimasto nel cuore?
Così come i sogni sono alloggiati, per me, nei primi ricordi di infanzia, in egual modo nel cuore probabilmente mi è rimasto uno dei miei primi lavori. Giovanissima lavorai allo spettacolo “Joseph K fu Prometeo” del giovanissimo Guido De Monticelli e la compagnia Il Gruppo della Rocca, proprio per quello spettacolo fui segnalata per Premio UBU, che non vinsi ma fu comunque grandissima soddisfazione. Il testo dello spettacolo era un intreccio tra alcuni racconti di Kafka e il Prometeo incatenato. C’erano degli dei che dovevano avere una forma assolutamente astratta. A me venne l’idea di immaginarli come meteoriti, pensai allo spazio e alle superfici lunari. La mia proposta richiamava la roccia, creando anche collegamento con quella a cui era incatenato Prometeo. “Facciamo i costumi di roccia!” esclamai. Chissà come mi venne la bellissima idea di usare la spugna marina del mare, che ci avrebbe permesso di sfruttare la sua superficie merlettata fantasiosa. La affettammo e incollammo per fare pepli. Nella sartoria Farani facemmo questi drappeggi in tela tinta dei colori della roccia, e su questi facemmo incrostare, da un’artista scultore, questi accrocchi di spugne marine, poi tinti di grigi e in certi punti anche brillantati. Erano costumi davvero potenti.