INTERVISTA – (Magazine cartaceo Dicembre 2019, rubrica “Dietro le Quinte”) Renato Lori, napoletano, Classe 1955. Scenografo diplomato all’Accademia di Belle Arti. Ha lavorato al fianco di noti registi, tra cui Ugo Gregoretti, Tato Russo, Toni Servillo, Mauro Bolognini, Mico Galdieri, Carlo Buccirosso, Stefano Incerti, Fortunato Calvino, Mirko Di Martino, firmando le scenografie di ben oltre 70 spettacoli. Nel settore dell’insegnamento è stato docente, dal 1996, di Scenografia e Scenotecnica presso le Accademie di Belle Arti di Torino, Venezia, Milano, Catania, Bari, Catanzaro e Foggia. Attualmente è docente di Scenografia presso l’Accademia di Belle Arti di Napoli.
Nel campo dell’editoria ha pubblicato, per Gremese Edizioni, i libri “Il lavoro dello scenografo”, “Scenografia e Scenotecnica per il teatro”, “Scenografia e Scenotecnica per il Cinema”. Quale sentimento l’ha spinto alla scrittura di questi libri?
Quando ho iniziato le prime volte ad insegnare da precario, mi sono accorto una volta di più di quello che già sapevo da allievo, e cioè che non ci sono testi sulla scenografia, anzi forse oggi iniziano ad essercene di più ma io ti sto parlando del 1995-1996, all’epoca davvero non c’era proprio niente. Mi sono sentito in dovere di iniziare a scrivere, all’inizio con tutte le perplessità sulla mia adeguatezza a scrivere qualcosa che sarebbe rimasto nel tempo. L’unico riferimento che avevamo all’epoca come testo di scenografia era il manuale di scenotecnica di Bruno Mello, era scritto alla fine degli anni ‘50, era l’unico ed anche oggi continuiamo ad utilizzarlo come principale perché per la scenografia tradizionale resta un testo validissimo. Però diciamo che questa è stata la spinta, l’idea di tramandare delle notizie, di dare la possibilità agli allievi di imparare qualcosa in più avendo la possibilità di leggere. Un po’, anche egoisticamente, volevo lasciargli un libro, così da risparmiarmi di ripetere sempre le stesse cose. Ho scoperto quindi il piacere di scrivere, io poi sono figlio di giornalista quindi diciamo che forse la scrittura era nel DNA.
Abbiamo parlato di antichi manuali, che offrono una finestra sul mondo dello spettacolo di 60 anni fa. Sicuramente evoluzione e tecnologia hanno impattato lo spettacolo, come considera Lei l’avanzare dell’innovazione?
Diciamo che bisogna stare molto attenti rispetto alle innovazioni. Ci sono due tipi di innovazione: la prima è quella applicata al lavoro di progettazione al computer. Io vengo da una generazione che ha sempre disegnato, io sono stato anzi forse tra i primi ad inserire un computer nel lavoro della scenografia. Andavo nei negozi, nella metà degli anni 90, e chiedevo ai negozianti di informatica di convincermi a comprare il computer per il mio lavoro. Non c’erano, e non ci sono tuttora, programmi specifici per la scenografia. Usiamo molto Photoshop che è un programma di fotoritocco, con cui realizziamo i bozzetti, poi ci sono i laboriosi programmi di realizzazione 3D che richiedono molto più tempo, infine poi ci sono tutti i programmi di progettazione, come AutoCAD, che però essendo nati per l’ingegneria e l’architettura nel nostro campo hanno un grosso limite, necessitano di misure reali espresse in millimetri, quando costruiamo invece ci sono scarti anche di centimetri tra il progetto e la costruzione. Una cosa però ci tengo a dirla, come la ripeto spesso ai ragazzi, cioè di tenere sempre presente che il computer è una macchina stupida. E’ utile se la si usa con intelligenza altrimenti può risultare solo un grosso limite che porta a soluzioni banali. E’ fondamentale che uno abbia delle belle idee, mi capitano giovani molto bravi a disegnare che però non hanno amore per il teatro e creatività, non hanno idee e quindi prima o poi cambiano strada. Il secondo tipo di innovazione è individuabile nella parte tecnologica che va in scena. La tecnologia trova ancora difficoltà ad essere inserita, un po’ per un discorso di costi e poi per un discorso di spazi, perché spesso ad esempio le retroproiezioni trovano difficoltà di attuazione e i ledwall sono troppo pesanti per essere trasportati. Sono contento che, insieme agli altri colleghi, siamo riusciti a portare queste tecnologie in Accademia inserendo un corso al biennio che comprendesse proprio queste cose, interessante approfondimento è quello del videomapping (per cui un oggetto può cambiare le sue connotazioni grazie alle proiezioni). E’ ancora un po’ tutto complicato, il fatto che in Italia il teatro sia fatto da compagnie di giro rende tutto più difficile, quindi queste finiscono per essere applicate solo nell’opera lirica e nei Teatri Stabili.
Converrà con me che la scenografia è protagonista quanto gli attori sul palco, parla anche lei ed è importante nei messaggi e simboli che riesce a trasmettere al pubblico.
Si mi viene da citare Slobodan che considerava lo spettacolo teatrale come fosse un’orchestra, ogni componente è uno strumento e può esserci anche il momento in cui la scenografia fa un assolo in cui magari c’è un cambio di scena a vista, e poi ci sono momenti in cui è giusto che la scenografia taccia, con una muta dietro ed una sedia al centro, anche quella è una scelta e qui non dico niente di nuovo. Così come cito a questo punto Giulio Baffi, che ho citato anche in un mio piccolo catalogo, che una volta ha affermato «La scenografia all’apertura del sipario è la prima cosa che parla allo spettatore e quindi deve dare un messaggio importante e forte, è la prima cosa che il pubblico vede ancor prima che gli attori aprano bocca».
La sua firma nelle scene teatrali è presente in più di 70 spettacoli. E’ capitato che gli spettacoli si siano sovrapposti? Quanto è gestibile il lavoro?
Io non amo queste situazioni, eviterei il più possibile di fare accavallare i lavori. I primi anni all’inizio della mia carriera ho firmato accanto ad Aldo De Lorenzo con il quale ho fatto anche gli studi in Accademia, poi le nostre strade si sono divise, lui ha fatto molti musical con la Compagnia dell’Arancia, e purtroppo qualche anno fa è passato a miglior vita prematuramente. Essere in due permetteva anche di gestire meglio il lavoro, oggi sto invece firmando le scenografie con Gilda Cerullo, che è anche mia moglie. Ed è splendido poter gestire insieme il lavoro, con il valore aggiunto di non abbandonare completamente la famiglia, abbiamo anche un figlio piccolo di 4 anni, e questo è un lavoro senza orari che richiede molto impegno.
Non si può chiedere quale spettacolo sia stato il suo preferito perché sarebbe un po’ come chiedere ad un padre quale figlio predilige. Sicuramente però ce ne sarà qualcuno che le è rimasto nel cuore più di altri. Ci racconta qualche aneddoto?
Di sicuro quelli che io ricordo di più sono spettacoli lontani nel tempo. Ad esempio ricordo molto “Sogno di una notte di mezza estate” di Tato Russo che debuttò a Villa Pignatelli, all’aperto nel lontano 1979. Lo ricordo perché era uno spettacolo molto fantasioso allestito nel giardino, per il quale feci un sipario di garza dipinto di 32 metri e all’epoca ero piuttosto giovane. Qualche collega più grande sentenziava: “Questo sipario lo andrete a prendere a Via Caracciolo perché il vento se lo porterà via”. Invece io ero ottimista e sicuro della mia scelta perché ritenevo che il vento riuscisse a passare attraverso questo tessuto, ed ho avuto ragione. La cosa più importante per uno scenografo è l’intuizione, capire come i materiali possono essere utilizzati. In questo senso per esempio io e Gilda ci compensiamo molto, io sono molto più portato per l’uso dei materiali, la retro illuminazione, i veli, tulle e le trasparenze. Gilda invece è molto più portata per l’uso dei meccanismi, pedane e pareti che ruotano. Altro spettacolo che porto nel cuore è lo spettacolo che ha re-inaugurato il Teatro Bellini nel 1988, sempre di Tato Russo. Per quanto di lui si possa parlare bene e male, io posso dire che, dal punto di vista di chi ci ha lavorato insieme come scenografo o costumista, di sicuro lui ci ha dato delle enormi possibilità. Per esempio per “L’opera da tre soldi” realizzammo un allestimento molto costoso, da Teatro Stabile, che invece non era. Un grande investimento, non solo pecuniario ma anche di affidamento a noi che eravamo tutti molto giovani.
E’ in scena al Diana in questi giorni, fino all’8 dicembre, lo spettacolo di Buccirosso, con la vostra scenografia.
Gilda lavorava già con Buccirosso. Io lo conoscevo da ancor prima, ci fu uno spettacolo nel 1976 in cui c’erano praticamente tutti, sotto la direzione di Tato Russo, si chiamava “Ballata e morte di un capitano del popolo”, c’erano per citarne alcuni Vincenzo Salemme, Carlo Buccirosso, Mario Porfito, Patrizio Rispo, Ciro Giorgio, Francesco Paolantoni, quello spettacolo ha portato bene un po’ a tutti. Lo conobbi in quello spettacolo però non avevamo più collaborato insieme. L’ho reincontrato tempo dopo con Gilda e ci chiese lui di firmarle a quattro mani. La scenografia di “Rottamazione di un italiano per bene” nasce dalla scena firmata da Gilda de “Il miracolo di Don Ciccillo” che risale ad una decina di anni fa, che Buccirosso ha deciso di riproporre in questa riscrittura. La curiosità legata a questa scena è che proprio noi abbiamo suggerito una modifica nella riscrittura soprattutto del secondo tempo. La scena di dieci anni fa era inutilizzabile perché deteriorata, abbiamo dovuto realizzare bozzetti e allestimento da capo. Abbiamo mantenuto la scena della camera da letto che era indispensabile, mentre la seconda, che era inizialmente ambientata in un salotto, è stata realizzata nella cucina del ristorante da loro gestito. La particolarità di questa scenografia sta nel suo essere particolarmente dinamica e realistica, non posso darvi troppe anticipazioni. Quest’anno poi al Diana abbiamo l’altro spettacolo di Buccirosso “Colpo di scena” e “Con tutto il cuore” di Vincenzo Salemme. La cosa bella del lavoro a quattro mani è che ci compensiamo molto negli stili quindi riusciamo a realizzare al contempo scene molto realistiche come queste e scene molto fantasiose, com’è stato per lo spettacolo “Il maestro più alto del mondo” di Mirko Di Martino.
Qual è il consiglio che dareste ad un giovane che si approccia al lavoro di scenografo?
Anche se sono passati 40 anni da quando ho iniziato io, credo non sia cambiato nulla. Il consiglio è sempre lo stesso, è darsi senza limitazioni. All’inizio non si guadagna, però ci sono tante possibilità di tirocinio e stage. Per diventare assistente devi essere preparato. Se vuoi avere la speranza che uno ti richiami, non devi essere “taccagno” sul lavoro, devi lavorare come se ti strapagassero. La cosa importante è rubare con gli occhi, e questo puoi farlo solo se sei presente. Io mi reputavo un fortunato quanto mi proponevano di fare la nottata per il disegno luci, perché ho imparato tantissimo. Oggi, quando mi capita di parlare con un LightDesigner so cosa chiedere, e se mi dice una sciocchezza io posso essere fermo nel dare un’alternativa.
Una sua considerazione sul teatro attuale a Napoli?
Io qui penso di poter spendere una nota polemica. A Napoli si fanno cose molto belle, però la maggior parte di quelle più interessanti vengono ignorate e questo è grave. E’ necessaria più attenzione alle piccole realtà e poi, ahimè, spesso l’ufficialità è più dettata da preconcetti culturali e linee politiche piuttosto che dalla vera valenza di quello che viene fatto. Io vorrei invitare ad una maggiore attenzione alle produzioni dei teatri piccoli e all’organizzazione delle categorie dei Premi. Abbiamo da molti anni il Premio Le Maschere che ha premiato molta gente ma sempre solo appartenenti a una determinata categoria di spettacoli, la mia perplessità è che non esista una categoria per gli spettacoli comici. Spesso le scenografie degli spettacoli comici, che incassano di più, permettono di avere budget per scenografie più importanti.
L’ultima è una domanda di rito del nostro magazine. Qual è il momento in cui ha capito che la sua vita sarebbe stata sposata alle scene teatrali?
Sono figlio di un giornalista che si occupava di spettacolo ed in casa quindi si è sempre respirata quest’aria. Dopo aver fatto il liceo artistico io ero abbastanza convinto già allora che avrei fatto lo scenografo però per un discorso di indirizzamento mi iscrissi alla facoltà di architettura. Dopo qualche mese di lezione e dopo aver preso in mano i testi di Analisi Matematica capii che non era proprio la strada giusta per me. D’altra parte io volevo fare lo scenografo e forse è stato proprio questo momento di arresto che mi ha fatto capire ancora meglio che era quello che volevo fare. Quando mi sono iscritto all’Accademia mi sono davvero impegnato negli studi. Quindi credo che il momento sia stato proprio quello, derivante dalla crisi causata da architettura. Anche ad amici dico di non spaventarsi se i figli si bloccano su una cosa perché può essere il momento in cui capiscono davvero cosa vogliono fare.